Nella seconda parte dell'intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport, il tecnico della Dinamo Kiev Miscea Lucescu ha rivelato i cardini della propria filosofia, rintracciabili ancora oggi nel gioco dello Shakhtar, ex-squadra del tecnico rumeno: "Allenare i giovani aiuta a restare giovani. Non lo faccio per soldi. A 75 anni sentivo la necessità di restituire al calcio tutto quello che mi ha dato. Volevo emozioni, stare in campo, insegnare, trasmettere ai giovani. Vivere, insomma. Shakespeare diceva ‘Prima di morire, vivi' e aveva ragione. Lo Shakhtar ha 13 brasiliani: non li ho presi io, ma il club. Anche quelli che non sono arrivati con me sono bravi, la loro forza è essere lì quasi tutti da più di 2-3 anni. Fonseca non riusciva a inserirli bene, con Castro sono tornati a fare come con me: nessuno arriva ed è titolare, aspettano, giocano spezzoni finché non assimilano la filosofia della squadra e sono pronti. E a quel punto ce ne sono altri dietro a fare lo stesso. Una filosofia che io e il presidente Akhmetov abbiamo sempre condiviso: ucraini dietro, brasiliani davanti. E che ha reso lo Shakhtar competitivo negli anni. Con me la cosa più importante è l’inizio. A 17-18 anni ti fissi i principi che ti porti dietro tutta la vita, e io ai miei ragazzi ho provato sempre a darne di sani accelerando il processo di maturazione. Dico sempre loro che a quell’età devono conoscere quello che gli altri conoscono a trenta, stare una vita calcistica avanti". Infine, un commento su Pirlo, attuale allenatore della Juventus e lanciato da giocatore al Brescia proprio da Lucescu: "Ha tutto per allenare ad alto livello. Innanzitutto è un uomo di grande equilibrio, non si sfoga, è freddo ed è importante: dà fiducia ai giocatori. E non sottovalutate Baronio: avere un amico accanto a te è importante. E poi ha dietro una società organizzata che lo aiuterà, e dei giocatori che si fidano. Litigai con Luzardi per farlo giocare a Brescia: facemmo male nell’angloitaliano, pareggiammo in casa e lui dava la colpa agli errori di Andrea. Ma io lo feci giocare per dargli un futuro, per fargli toccare il livello mondiale che avrebbe meritato. Perché nel calcio non conta quanti anni hai ma quanto vali. Anche in allenamento dicevo sempre di non toccarlo, lo esortavo a fare quello che gli piaceva. Era intelligente, imprevedibile e capiva il gioco prima degli altri".
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