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Maradona, Troisi e la vita che aveva sognato: ritratto di Gianni Minà

“Il giornalista mi deve raccontare quello che succede, non giudicare. Il mestiere del giudice è un altro. Questa aggressività è una aggressività cretina, che non porta a nulla”. 

Maradona, Fidel Castro, Muhammad Ali ma anche Sergio Leone, Massimo Troisi e Robert De Niro, e un’idea precisa di cosa significasse essere giornalista: trasversalità e convivialità, con quel dolce tono di voce accompagnato ad altrettanto dolci occhi, iniettati di passione. Per la scrittura, per il giornalismo ma anche e soprattutto per le persone. Un viaggio iniziato a 21 anni nella redazione di Tuttosport, di cui divenne anche direttore dal 1996 al 1998, e da un lungo sodalizio con la Rai iniziato con le Olimpiadi di Roma nel 1960.

Decine e decine di interviste, il suo must, come quella di ben 16 ore insieme al leader cubano (“Fidel racconta il Che”, un documentario divenuto poi libro), e una solida amicizia con il numero 10 per eccellenza, Maradona, un vero e proprio Dio per Minà: “Faceva tutto a una velocità doppia”

Su Diego, è celebre l’aneddoto del post Italia-Argentina, anno 1990, l’arcinota semifinale del mondiale italiano: “Maradona mi aveva promesso per telefono che, se l’Argentina si fosse qualificata, lui sarebbe sceso subito per darmi l’intervista: non faccio in tempo a entrare sotto lo stadio che Maradona, ancora in tenuta da gioco e assaltato dagli altri giornalisti, era già lì. Disse: ‘scusate, io ho un impegno con Gianni Minà, arrivederci’”. Nel 2005, in maggio, un’altra indimenticabile intervista insieme a Minà: “Ero praticamente morto, e oggi sono qui. Dio non mi vuole perché ha paura che faccia casino…”, disse l’argentino.

Con Troisi resta celebre il duetto a “Alta Classe”, programma del 1992 in 12 puntate in cui nella prima parte si esibivano musicisti e artisti del famoso locale “La Bussola” in Versilia, e nella seconda si dava spazio a personaggi dello spettacolo. Il comico napoletano incalzò Minà sulla sua famosa agendina colma di numeri di telefono: “Quando mi ha chiamato, prima ha sfogliato l’agendina: Fidel Castro, Little Tony, Toquinho, Troisi. E mi ha trovato!”. 

Personaggi vissuti e vivisezionati, con un solo grande rimpianto: Nelson Mandela, incontrato a Roma e con il quale aveva fissato un appuntamento in Sudafrica per una intervista, rinviato per motivi che non riuscì mai a ricordarsi. 

Di lui fece una imitazione ben riuscita Rosario Fiorello a “Viva Radio 2” nel 2005, ironizzando sulla grande mole di personaggi che aveva incontrato. E oggi sono più che mai attuali le parole di una intervista del 2017: “Ho fatto ciò che volevo fare, ho incontrato le persone che volevo conoscere, ho sognato ciò che volevo sognare”

Ma per noi, soprattutto noi che ci occupiamo di sport, non è una consolazione. Perché con la morte di Gianni Minà se ne va un grande uomo e un altro pezzo di quel giornalismo “sul campo” che va sempre più scomparendo, divorato dall’indolenza e dalla pigrizia sdoganate dal web.“Ho fatto tutta la vita questo mestiere mettendo il gettone nel telefono, chiamando e parlando con l’altra persona”: adesso quasi tutti i suoi amici li ritroverà lassù. Vorremmo tutti vivere almeno un giorno da Gianni Minà.

Stefano Ravaglia

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